INTEGRATIO, Places of Cultural Integration and perspective from visiting to meating - GO TO HOME PAGE
| GO TO ENGLISH VERSION

La tradizione gastronomica

Parte integrante del patrimonio culturale della nostra area è la gastronomia, che se da un lato è intimamente legata alla duplice economia della Costa, contadina e marinara, dall'altro rivela tutti i legami e le influenze esercitate dai contatti con il Mediterraneo e l'Oriente, vicini a queste zone grazie ai commerci.

La tradizione gastronomica della Costiera amalfitana risale a ben 2000 anni fa, ossia all'epoca del popolamento romano. Tali origini sono dimostrate sia dal fatto che molte preparazioni sono state tramandate oralmente, sia dalle ricette trascritte da Apicio nel De Re Coquinaria. Molto probabilmente i primi artefici della tradizione culinaria locale furono i patrizi romani che, sbarcati nelle località del Cilento per errore o per un violento nubifragio, preferirono trasferirsi a Scala incantati dalla stupenda vegetazione, dalla grande abbondanza di acqua, dalla vicinanza al mare e dalla ricchezza dei pascoli, che nutrivano una razza bovina con un'eccezionale produzione di latte.

Dopo aver deciso di stabilirsi a Scala iniziarono a prodigarsi per rendere coltivabili quelle terre prevalentemente rocciose, cercando di introdurvi le colture a loro familiari. È infatti risaputo che i Romani coltivassero il farro, il frumento, la fava, il fagiolo, i ceci, l'erba medica ed ortaggi come zucche, cipolle, agli, tutti prodotti che per secoli hanno alimentato le popolazioni della regione amalfitana giungendo fino ai giorni nostri. Esempi di pietanze preparate con tali prodotti sono la minestra di farro con cicerchie o fagioli condita con il lardo o anche con gli insaccati e con le carni povere del maiale come rotelle e farmicina, poi ribattezzate con i nomi di noglie e pezzante; le fave fresche fritte nel lardo (oggi con la pancetta); le zucchine alla scapece fritte e condite con aglio, olio, sale, aceto e menta.

Per i Romani era molto importante anche la coltura della frutta ed essi dedicarono particolare attenzione agli alberi di mele, pere e susine. Fra le mele vi erano le cotogne e le tubiole o turione: le prime sono quasi completamente scomparse e ne rimangono pochi esemplari solo in alcune zone, tra le quali Scala. Qui i buongustai le mangiano ancora alla vecchia maniera romana: fritte a tondelli in olio bollente con una pastella di farina ed uova e poi spolverate con zucchero e cannella. Un'altra qualità di mele presente era quella delle alappie, la cui buccia si lasciava bruciare sul fuoco o nella cenere del braciere per profumare la casa o si metteva a seccare fra la biancheria.

Molto utilizzati erano anche i prodotti derivati dal latte. I formaggi erano usati sia freschi che stagionati, mentre il burro era utilizzato come unguento per uso curativo. La regione amalfitana continua oggi la tradizione iniziata dai suoi antichi abitanti producendo mozzarella di ottima qualità, preparata in carrozza (fritta tra due fette di pane indorate con uova), la provola affumicata, il caciocavallo a pasta morbida e dura. Le carni erano quelle tipiche che ancora oggi si usano, con una particolare predilezione per il cinghiale, il maiale e i gallinacei.

Un'altra componente basilare della tradizione gastronomica della Costiera già apprezzata dai romani è costituita dal pesce. Da quest'ultimo si ricavava una famosa salsa con la quale i nostri avi usavano condire un gran numero di pietanze: il "garum". Non si hanno più tracce del misterioso pesce garos da cui pare abbia preso il nome la salsa che i romani battezzarono garum, e che continuò ad essere usata finchè non venne superata per qualità e fragranza, nonché per semplicità di produzione, dalla colatura di alici.

Sembra che quest'ultima abbia cominciato ad essere prodotta intorno alla seconda metà del XIII secolo dai monaci cistercensi della canonica di S. Pietro a Tuczolo, situata sull'omonimo colle che oggi è sede dell'albergo Cappuccini. I monaci possedevano una modesta flotta di barche generalmente utilizzate per il trasporto dei cereali, ma che nel periodo estivo divenivano pescherecci per la pesca delle alici. Essi avevano anche installato a valle una bottega per la conservazione del pescato che, dopo essere stato parzialmente lavorato, veniva collocato per la salagione in botti dalle doghe sconnesse. Ai primi di dicembre le alici erano arrivate a maturazione: il loro liquido di conserva, passando attraverso le doghe, colava sul pavimento emanando un profumo gradevole. L'invitante aroma, la limpidezza e il colore ambrato del liquido indussero i monaci ad usarlo per condire verdure lessate che abitualmente venivano insaporite solo con aglio, peperoncino, olive, capperi ed olio. Nacque così la colatura della alici, discendente del garum. Con il trascorrere del tempo le verdure condite con la colatura hanno subito un notevole arricchimento di sapore con l'aggiunta dello "sponzino" o "pomodoro del pendolo", coltivato nei terreni di Furore e Conca dei Marini.

Pietanza molto diffusa nella regione è la caponata, diretta discendente della zuppa di custrum: un biscotto di grano e di farina d'orzo, ammorbidito nell'acqua e condito con pesce salato, capperi, olive, alloro, olio (nella versione marinara è realizzato con brodo di pesce o di mitili sempre pepato e con l'aggiunta di erbe aromatiche). La caponata era il piatto preferito dal caupo, l'oste dell'affollata "caupona viaria", la strada delle osterie.

Una tradizione culinaria molto importante nasce proprio intorno ai conventi, perché questi utilizzavano tutti i prodotti genuini che venivano dagli orti e dalle stalle che li circondavano. Questi prodotti stimolavano l'inventiva suggerendo piatti quali la minestra maritata, la zuppa di fave secche, la zuppa di ceci con funghi, la zuppa di castagne, le raganelle con uova e zucchine. La minestra maritata è un piatto molto conosciuto e tipico del pranzo di Pasqua dei tramontani, minoresi e maioresi. Tale minestra è servita con un marito che corrisponde ad uno stomaco del maiale e qualche osso, entrambi salati. Alle tavole degli amalfitani, atranesi e conchesi, invece, le verdure vengono servite con "noglie e pezzante", mentre il marito preferito delle erbe scalesi è il gamboncello (il muscolo dell'arto anteriore del maiale) che di solito veniva consumato il 10 agosto, in occasione della festa patronale, unitamente al concerto d'erbe formato da scarole, verze, torzello, cardoni, carboncelli e qualche rametto di finocchietto. In alcune zone, ad esempio a Maiori, si prepara ancora la zuppa di ceci che viene degustata in occasione del tradizionale cenone di Capodanno: per tale ricorrenza si riunivano infatti gli antichi cicerali per offrire le loro gialle pepite che simboleggiavano la loro ricchezza, molto superiore a quella propiziata dalle modeste lenticchie.

Diffusa è anche la zuppa di castagne, che risale sempre agli antichi romani. È proprio grazie al duro lavoro dei monaci che hanno dissodato ettari di terreno trasformandoli in terrazzamenti che ha potuto diffondersi la coltura del castagno, oggi concentrata soprattutto nelle zone di Scala e Tramonti.

Altro piatto tipico della Costiera amalfitana è la pasta. Non è semplice stabilire quali fossero i primi formati di pasta, ma è certo che Minori sia uno dei centri più accreditati della tradizione culinaria proprio grazie agli antichissimi 'ndunderi seguiti poi dalle "lagane", dai "ricci" e dai famosi maccheroni, la cui invenzione è attribuibile alle antiche massaie. La tradizione della pasta, a Minori, risale a qualche secolo fa, quando i prodotti che uscivano dai numerosi pastifici locali venivano messi ad asciugare lungo gli spanditoi posti sulla spiaggia. La fortuna di questa produzione era legata non ad una ricchezza di materia prima in loco, ma al commercio del limone, abbondante già a partire dal XII secolo e in cambio del quale si importava grano.

Gli 'ndunderi venivano consumati con cacio e spezie aromatiche o con una salsa fredda realizzata con prezzemolo, aglio e qualche foglia di finocchietto, pecorino, sale, noci e olio extravergine. Gli 'ndunderi sono ancora oggi presenti (non più nelle forme e condimenti originali) sulle mense dei cittadini di Minori i cui antenati destinarono la pietanza ad essere consumata il giorno della festa patronale di Santa Trofimena. L'originale ricetta per la preparazione degli 'ndunderi risale probabilmente ad un pastore dell'antica Roma che realizzò per la prima volta la "polenta caseata di farro", cioè farina di farro impastata insieme a latte cagliato con il lattice di fico selvatico, ridotta a palline e cotta in acqua bollente. Le massaie minoresi continuano a confezionarli a mano, uno ad uno, e li battezzarono 'ndunderi per la loro composizione molliccia.

Gli 'ndunderi oggi si preparano con un impasto di farina e ricotta o yogurt o latte normale, in sostituzione del latte cagliato, per rendere meno complicata l'esecuzione della ricetta. L'impasto va ridotto in un lungo cordone non troppo sottile, poi tagliato a tocchetti della grandezza voluta che in seguito vengono resi concavi dalla leggera pressione di un dito o di due dita a seconda della grandezza e facendoli scivolare sulla concavità di una grattugia, su una forchetta o su un'apposita tavoletta rigata detta "pettine". In tal modo ogni 'ndundero si trasforma in una conchiglia pronta ad ospitare condimento e sapore. Gli 'ndunderi sono ancora oggi presenti sulle mense di tante famiglie minoresi e vengono conditi con ragù rosso cupo, colore determinato dalla lunga ebollizione del passato di pomodoro nel tegame di coccio, dove va a cucinarsi con la cipolla già soffritta in strutto ed olio di oliva e bagnata da un corposo vino rosso prodotto da una miscela di uve "tintore" e "pere e' palummo", maturate nella soleggiata collina della città o nella vicina Gete di Tramonti.

Alcuni vecchi minoresi raccontano che, fino agli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, in occasione della ricorrenza della festività patronale del 13 luglio, molti concittadini seguivano la processione della santa in abiti da cerimonia, che prevedevano la camicia bianca inamidata e tuttavia schizzata di "ragù rosso cupo" a dimostrazione che avevano onorato la Santa anche a tavola, consumando a pranzo gli 'ndunderi. Nella ricorrenza del 27 novembre invece, gli stessi abitanti del luogo, seguendo la processione che in tale occasione attraversa le strade delle città nelle ore antimeridiane, si affrettavano ad avvertire ad alta voce - tramite i figli che seguivano la statua della Santa in altra posizione in modo che i vicini potessero ascoltare - chi era rimasto a casa a preparare il pranzo con la seguente espressione: "avviert a mammà e mettere e 'ndundari int' 'a cavurara, cà 'a Trofimena sta all'onne 'o mare" (avverti mamma di mettere a cuocere gli 'ndunderi che la statua della Santa è giunta alla spiaggia). Questo era il modo di comunicare ai vicini che avrebbero onorato la Santa anche a tavola consumando la famosa pietanza della tradizione.
Le lagane, invece, sono paragonabili alle moderne pappardelle e si sposano molto bene con una salsa di ceci fatta bollire lungamente con olio, aglio e prezzemolo: la tradizione vuole che si consumino il 2 novembre, per mitigare il grigiore della ricorrenza. Le lagane sono prodotte da un impasto di farina, acqua e sale ridotto ad una sottile sfoglia dalla pressione esercitata sull'impasto dal "laganaturo", un legno cilindrico del diametro di 4/5 cm e lungo 50 cm, poi tagliata a strisce della lunghezza di circa 20 cm e della larghezza di 1 cm.

I ricci sono infine assimilabili ai fusilli, si ottengono sfregando un ferro lungo su piccoli tocchetti di pasta, vengono conditi con le stesse salse degli 'ndunderi e come questi hanno subito grandi trasformazioni all'arrivo dei prodotti del nuovo mondo.

Con il passare del tempo i semplici piatti sono divenuti dei veri e propri capolavori per il palato a seguito delle varie rielaborazioni apportate dagli abitani del posto. Esempi di ciò sono i "bucatini al sangue di maiale" e il "sanguinaccio". Quest'ultimo ci introduce al ventaglio della tradizione dolciaria della Costiera Amalfitana. La nascita di tali piatti è quasi sempre da ricollegare all'invenzione e all'estro delle massaie, delle suore e dei frati cucinieri per festeggiare le grandi ricorrenze come Natale e San Giuseppe con zeppole, struffoli e mostaccioli o le feste patronali con torte di vario tipo come i pasticciotti.

Due dolci tutt'oggi molto diffusi lungo la Costa sono la pastiera e la sfogliatella Santa Rosa. La pastiera era originariamente un migliaccio di maccheroni in cui si utilizzava "la pasta di ieri" condita con ricotta dolcificata, uova e cannella. Solo in un secondo momento fu preparata con una pasta lunga ed in particolare con un formato molto sottile denominato "fedeline", cotte nel latte e condite con zucchero, cannella, acqua di fiori d'arancio ed amalgamate con uova sbattute. Il tutto veniva poi posto in una teglia di terracotta preunta con sugna o burro per essere cotto al forno sino alla doratura della superficie. Il migliaccio di pasta dolce, dopo aver subito varie modifiche, oggi è divenuta una sfoglia esterna di ottima pasta frolla con all'interno un composto di crema pasticcera e ricotta montata e dolcificata con aggiunta di cedri, scorze d'arancio e canditi tagliuzzati a dadini, grano precotto, latte e strutto aromatizzato da una spruzzatina d'acqua di fiori d'arancio. La pastiera è ormai divenuta il simbolo della Pasqua per gli abitanti della Costiera Amalfitana.

La torta di Santa Rosa, invece, fu creata dalle suore del monastero di Santa Rosa a Conca dei Marini intorno ai primi anni del Settecento in un giorno in cui con cadenza quindicinale erano solite preparare il pane occorrente ai bisogni del monastero. In una di tali occasioni la monaca cuoca disponeva di semola cotta nel latte e dolcificata (che ella era solita preparare per le consorelle anziane o ammalate) in quantità maggiore di quella di cui effettivamente necessitava e quindi decise di condirla con frutta secca (albicocche, pere, susine) dopo averla rigenerata nel profumato liquore al limone. L'impasto così ottenuto fu deposto su di una pettola (sfoglia di pasta) che le monache avevano utilizzato per preparare il pane e dalla quale avevano fatto assorbire strutto, zucchero ed un po' di vino vecchio bianco, fino a ricavarne una friabile pasta frolla. Una seconda pettola delle stesse dimensioni della prima servì a ricoprire la crema di semola. La massa ottenuta fu modellata con le mani fino a dare la caratteristica forma del cappuccio monacale e fu posta sulla pala di legno e cotta al forno.

Fu grande festa quel giorno nel monastero e poiché la madre badessa trovò deliziosa la nuova invenzione dispose di chiamarla Santa Rosa in onore della Santa fondatrice della regola che praticavano. Quindi ordinò di riproporla nelle quantità giuste per dispensarla a tutte le famiglie del paese e a quelle benefattrici negli altri centri costieri e di Napoli. Nel corso del tempo a tale dolce sono state apportate delle piccole modifiche nelle quantità e nella forma e la frutta secca del ripieno è stata sostituita con ricotta, crema e canditi: tali modifiche hanno portato alla moderna "sfogliatella", che continua a chiamarsi Santa Rosa. Solo in un secondo tempo la sfogliatella ha acquistato la forma triangolare e, esportata a Napoli, ha subito la variante con la pasta sfoglia che l'ha trasformata in "sfogliata riccia".

Altro prodotto simbolo della Costiera Amalfitana è il limone. Questo già nel XIX secolo rivestiva una grande importanza economica e sociale, visto che l'economia del limone coinvolgeva già l'intera popolazione. Il limone della Costiera (tutelato di recente dall'Indicazione Geografica Protetta) con il suo profumo intenso, la buccia ricca di oli essenziali e la polpa dolce e succosa, con pochi semi, è sì utilizzato come condimento, ma si sta sempre più affermando come ingrediente fondamentale di dolci e liquori (limoncello). La varietà è nota col nome di "Sfusato Amalfitano" proprio per la sua forma affusolata: si coltiva in tutti i comuni della Costiera Amalfitana e la produzione migliore si ottiene fra giugno e ottobre.

La forte correlazione tra le vicende storiche della Costa e l'alimentazione dei suoi cittadini è dimostrata dal fatto che, ancora fino a pochi anni fa, le specialità culinarie più raffinate erano destinate solo ai giorni delle feste religiose locali: era solo per osannare il Santo patrono del paese che gli abitanti si dedicavano alla preparazione delle antiche pietanze preparate con i prodotti dell'economia locale secondo le ricette tramandate dai padri della Repubblica. In quei giorni ogni borgo presentava la sua specialità: si tratta quasi sempre di piatti che sembrano appartenere alla cucina povera e che invece rivelano un'insospettata ricchezza di elementi antropologici, che si palesa anche attraverso le pratiche di cottura.

Così ad Amalfi, durante i festeggiamenti di S. Andrea, e a Cetara, per onorare S. Pietro, si preparavano e ancora si preparano le alici secondo molte ricette, ma soprattutto alla scapece (olio, aglio, aceto e menta). A Positano, per S. Vito, sono i totani ad avere la meglio, fritti dopo essere stati passati nella farina e nell'uovo (di solito basta la farina) e, per concludere il pranzo, panzarotti di ricotta e cedro. A Praiano si prepara il migliaccio (tipo di dolce), a Conca dei Marini il palamito con la cipolla. Degli 'ndunderi preparati a Minori per la festa di Santa Trofimena si è già detto.

Ad Atrani c'è un interessante piatto per la festa di S. Maria Maddalena: il sarchiapone. La ricetta è molto elaborata e prevede una farcia di carne, ricotta e uova a pezzetti inserita nella parte esterna della zucca verde lunga preventivamente tagliata a pezzi di media grandezza, privata del riempimento bianco e fritta: il tutto viene passato per poco tempo al forno, coperto di passata di pomodoro. Questo piatto si discosta dal tradizionale rapporto economia locale-tradizione gastronomica, in quanto ad Atrani sarebbe logico attendersi preparazioni a base di pesce: in realtà, ma anche il motivo di questa apparente contraddizione può essere ritrovato nella cultura del luogo. Questo comune, infatti, presenta ancora nella parte alta dell'abitato molti giardini che soprattutto nel mese di luglio (la festa è il 22 luglio) forniscono molte zucche, coltivate su pergolati. Poter mangiare un piatto da ricchi (la carne non era cibo di tutti i giorni) aveva un significato antropologico di grande rispetto per la santa patrona: il sarchiapone è quindi l'antenato dei cannelloni (la tradizionale fodera di pasta è sostituita dalla zucca) che secondo la tradizione locale furono inventati dal cuoco dell'Hotel Cappuccini di Amalfi, in perenne gara inventiva con quello dell'Hotel Luna, sempre di Amalfi.

Maiori offre, per la festa di S. Maria Assunta, la melanzana al cioccolato. La ricetta, che sembra risalga al XVIII secolo, rivela inaspettati riscontri di tipo storico. La melanzana va infatti fritta due volte, dopo essere stata passata nella farina, e questo già rivela un rapporto con la cucina medievale che prevedeva la doppia cottura dei cibi; l'ingrediente principale, poi, viene posto ad ammollo nel "concierto", rosolio di erbe prodotto dai frati francescani di Tramonti, e infine ricoperto a strati da crema di cioccolato (guai a sciogliere il cioccolato fondente), arricchendo ogni strato con canditi di arance e cedri (influenze arabo-sicule provenienti dagli intensi rapporti commerciali di Maiori, dove si trovano i resti dell'unica sinagoga dell'intera Costa) e da gherigli di noci. Questo piatto ha sostituito la più modesta e più antica milza di vitella all'aceto che doveva legarsi all'economia agricolo-pastorale dell'entroterra maiorese.

I paesi della fascia collinare mostrano altro tipo di specialità: a Scala, il 10 agosto, festa di S. Lorenzo, veniva cucinato (la tradizione si è quasi persa) il gambogello, mentre a Ravello sono le zucche e le zucchine ad essere sulla tavola il 27 luglio, giorno di S. Pantaleone.

Accanto a questi piatti ci sono poi le ricette comuni a tutti i paesi della Costa, alimenti poveri messi insieme con sapienza ed originalità.

L'insalata di agrumi (arance e limoni conditi con olio ed aceto) apriva il pranzo domenicale; il ciuffo del tonno (la parte vicino alla testa), cucinato in un tegame di coccio con vino bianco e passata di pomodoro, sostituiva il ragù di carne soprattutto sulle tavole dei cetaresi; le alici, pescate in abbondanza nel periodo estivo, per essere conservate a lungo, erano poste sotto sale secondo una procedura che era quasi un rito che coinvolgeva tutta la famiglia. Il capofamiglia, solitamente pescatore, portava le alici non a casa, ma sulla spiaggia, dove la moglie provvedeva a pulirle e a lavarle nell'acqua di mare per poi porle in un contenitore di coccio, secondo uno schema a raggiera, alternate a strati di sale; i bambini, infine, dovevano raccogliere i sassi adatti per far peso come chiusura del barattolo. Solo d'inverno, dopo una lunga maturazione, le alici erano pronte (di solito l'inaugurazione del prodotto avveniva nella "minestra mbuttunata" - scarola, uva passa, olive, aglio e alici salate-, piatto della vigilia di magro a Natale) e di queste niente veniva buttato: il liquido di maturazione, la famosa colatura, plebeo discendente del più nobile garum di Roma antica, era raccolto in bottiglie ed utilizzato per condire la pasta di altri pranzi.

Il 2 novembre, giorno della memoria dei defunti, ovunque si mangiava ed ancora si mangia la pizza (di solito con lardo, basilico e formaggio) perché era necessario preparare qualcosa che non interferisse con le lunghe visite ai cimiteri e ch potesse essere preparato in anticipo.

Sulle colline il ruolo onnipresente delle alici era svolto dal maiale, facile da conservare: se il lunedì di Pasqua era d'obbligo la "minestra maritata" (il piatto unico di scarola e pezzi di maiale cotti insieme), per carnevale (periodo in cui avviene l'uccisione del maiale) veniva preparato il "sanguinaccio", sangue di maiale cotto insieme a latte e cioccolato e guarnito da canditi e pinoli (l'influsso della cucina napoletana qui è prepotente).

Superata la metà degli anni Settanta, i ristoratori locali cominciarono a portare alcune varianti subito notevolmente apprezzate dai visitatori: ci fu così il boom della gastronomia più tipica, dagli antipasti a base di insalata e frutti di mare, alici marinate, pomodori essiccati e conservati sott'olio, agli spaghetti ai frutti di mare arricchiti dalla bontà della pasta fatta a mano tra cui tagliolini e scialatielli, ai totani imbottiti, stocco e patate, ai prodotti dell'orto quali le zucchine alla scapece, le melanzane a funghetti, i peperoni ripieni per poi terminare con i dolci, come pastiere e casatielli, sanguinaccio, sfogliatelle Santa Rosa ed infine le delizie a limone. Il tutto è bagnato dai vini DOC di qualità Furore e Tramonti.


Bibliografia
Falcone E., "La tradizione culinaria della regione amalfitana, il garum e la colatura d'alici", in Rassegna del Centro di Cultura e Storia amalfitana, 6 Dicembre 1993, Nuova Serie
Sangermano G. (cur), Minori Rheginna Minor, Storia Arte Culture, Salerno, De Luca Editore, 2000
"La tradizione culinaria" e "Il limone, l'oro giallo della costa d'Amalfi", in La Costa d'Amalfi, paesaggio di borghi dipinti, iniziativa ideata da Cotur Costa d'Amalfi coordinamento turismo rurale
Costa d'Amalfi e Penisola Sorrentina, Itinerari, Piacenza, 2002
 
Approfondimenti
  • La tradizione gastronomica
| FORUM
Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali - Villa Rufolo - 84010 Ravello - Italia - tel. +39.089.857669/089.858101